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Presentata relazione sul disastro traghetto "Moby Prince"

Conclusione resoconto finale seconda commissione parlamentare d'inchiesta

Illustrata ieri a palazzo San Macuto la conclusione della relazione finale della seconda commissione parlamentare d’inchiesta sull'incidente della nave "Moby Prince" avvenuto il 10 aprile 1991 a Livorno. Dopo 31 anni dalla strage la verità è davvero all’orizzonte per i familiari delle vittime che si battono da decenni per avere giustizia: non fu colpa di bombe, avarie, manomissioni, nebbia o errori d’equipaggio, come fino ad oggi si era raccontato. 

"A dimostrarlo scientificamente sono stati gli ingegneri del Cetena di Genova, una delle più importanti società di ingegneria navale al mondo specializzata nelle simulazioni. Abbiamo fornito loro tutti i dati tecnici in nostro possesso, dalla situazione meteo di quella notte alle perizie tecniche del motore, dalle analisi chimiche e sulla posizione delle navi in quel tratto di mare davanti a Livorno", ha spiegato il presidente della commissione d’inchiesta Andrea Romano (Pd).

"Ora è necessario scoprire chi sia realmente la terza nave, ma anche sapere chi ha messo in atto, da subito, un’azione dolosa per fare in modo che la verità non si scoprisse", ha dichiarato Luchino Chessa, figlio del comandante della "Moby Prince". 

A causare il disastro, in cui sono decedute 140 persone (un superstite) sarebbe stata una terza nave, forse un peschereccio d’altura somalo, che il traghetto si trovò improvvisamente davanti alla prua. Per evitare la collisione, la nave fu costretta a compiere una manovra che la fece finire contro la petroliera "Agip Abruzzo". Quest'ultima era ancorata in posizione irregolare, con le luci spente ed avvolta da una nuvola di vapore acqueo provocata da un’avaria, in una zona della rada del porto di Livorno in cui non doveva sostare.

Resta un’unica incertezza: l’identificazione della terza unità navale. La fine anticipata della legislatura ha interrotto gli accertamenti che stavano portando indizi sulla "21 Oktoobar II", un ex-peschereccio battente bandiera somala, di proprietà della società armatrice Shifco di Mogadiscio, finito al centro di un’inchiesta sul traffico illegale di armi. La nave era a Livorno il giorno della strage "per lavori di riparazione". Non si esclude neppure la presenza di una bettolina menzionata dall’allora comandante dell’"Agip Abruzzo".

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